di Claudia Fedeli
“I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta.”
Antoine de Saint-Exupéry
Per i bambini piangere è un fatto sano e naturale, basti pensare che il primo segnale di vita di un neonato è proprio il pianto. Un buon pianto indica che una gran parte del sistema fisiologico è intatta e funziona bene: piangere infatti richiede al bambino di mettere in atto una serie di complicate e sofisticate funzioni fisiologiche, che coinvolgono il cervello e i sistemi respiratori, motori e vocali. Ma la funzione del pianto è in primo luogo comunicativa. I bambini piangono per lo stesso motivo per cui gli adulti parlano: per esprimere qualcosa. Inevitabilmente questo comporta che gli adulti si impegnino nel comprendere e interpretare in modo corretto questa comunicazione, e rispondano in maniera contingente. A volte si può essere portati a rinuciare a questo impegno, può accadere infatti che appena si sente piangere un bambino la prima cosa che viene da dire è: “No, perché piangi? Non piangere…”. E' comprensibile che per i genitori, e più in generale per chi si occupa di bambini piccoli, il pianto rechi angoscia o risuoni come disturbante. Ci si può sentire disarmati perché non si riesce a comprendere il suo significato, che per gli adulti è sintomo di sofferenza fisica o psichica. E’ un suono talmente poco tollerabile che si racconta che sia stato usato come procedura disturbante con i reclusi di Guantanamo. Ma rispondere in modo accogliente al pianto del bambino significa porsi nella prospettiva di andare oltre alle lacrime e interrogarsi sul suo sentire, nel duplice tentativo di dare risposta alla sua comunicazione e di fornire una presenza rassicurante.
Perché i bambini piangono? E come si trasformano i bisogni e le comunicazioni veicolati dal pianto durante la crescita? E’ molto importante capire il significato del pianto per poter intervenire nel modo più adeguato: esso infatti sottende significati diversi tra loro. Subito dopo la nascita il pianto tende a essere scatenato più o meno automaticamente da una serie di stimoli di natura fisiologica (fame, dolore, freddo/caldo..). Man mano che passano i giorni, accanto a queste ragioni si associano cause più relazionali, come richiamare la vicinanza e la presenza di un adulto. Proprio per questo motivo è stato definito un “cordone ombelicale acustico” che mantiene il bambino in contatto con la madre. Oltre a garantire la prossimità dell’adulto, il pianto di questo primo periodo consente anche di avviare interazioni sociali, permettendo alla madre e al bambino di conoscersi maggiormente e di sviluppare alcune modalità di regolazione reciproca.
Semplificando, sono state individuate tre tipologie di pianto, con caratteristiche differenti basate sul timbro, l’intensità e la durata (Wolff, 1969). Il pianto di fame è il più comune ed è caratterizzato da un inizio a bassa intensità che diviene poi più forte e ritmico; sono presenti singhiozzi e movimenti delle labbra, quasi come se stessero succhiando. Il pianto di dolore, vigoroso e continuo, forte fin dall’inizio e prolungato nel tempo con una fase di silenzio e la presenza di singhiozzi alternati a brevi inspirazioni. Infine, il pianto di rabbia è simile al pianto per fame, ma con tonalità più bassa ed una intensità costante. Questi modelli sono presenti nella stessa forma in tutti i bambini, di culture molto diverse, per questo motivo si è ipotizzato che la loro produzione sia modulata dal funzionamento del sistema nervoso centrale (Barr, 1991). I bambini piccoli però non piangono solo per comunicare un bisogno immediato come la fame, ma piangono anche per eliminare tensione e stress.
Come accennato, fino alla fine del primo mese il pianto viene considerato un riflesso, ma a già a partire dalle 4-6 settimane i processi maturativi permettono al bambino di avere un maggiore controllo delle proprie corde vocali e della laringe, che peraltro è un prerequisito per il successivo sviluppo del linguaggio. Il bambino scopre quindi di poter produrre suoni e con il passare dei mesi può utilizzare il pianto in modo intenzionale, “sapendo” di poter produrre degli effetti sugli altri. Verso le 4-6 settimane compare il pianto per attirare l’attenzione, che è un pianto differente da quelli di fame, di dolore e collera, anche se intorno ai 3-4 mesi spesso si osserva un decremento significativo del pianto (Barr, 1998).
Con la crescita, le cause del pianto si modificano perché il bambino elabora meccanismi psicologici più complessi: a partire dalla seconda meta del primo anno, i motivi più diffusi che possono portare al pianto sono la frustrazione, il pianto che compare prima di andare a dormire, la paura della separazione e quella dell’estraneo. Verso gli 8 mesi separarsi dal genitore diventa uno dei motivi di maggiore sofferenza per il bambino che, piangendo, segnala la sua ansia. Dopo i 12 mesi il pianto è un segnale comunicativo efficace e completo: è un pianto che resterà come canale comunicativo prioritario delle emozioni più forti per tutta la vita (Rothganger, 2003).
Tra i 18 mesi e i 3 anni il bambino sviluppa capacità più complesse di giudizio e percezione del mondo esterno, le ragioni per cui piange diventano quindi più articolate. Si osserva in questo periodo un pianto legato frequentemente a una bassa tolleranza della frustrazione e al desiderio di affermare la propria “posizione” attraverso la contrapposizione all’adulto: tipici di questo periodo sono quelli che comunemente vengono definiti “capricci”. Parallelamente, nell’arco dei primi anni di vita, sempre di più l’adulto si trova di fronte a diverse situazioni in cui diventa inevitabile rispondere con un “no” al pianto del bambino. Non è il caso di perdere la calma, poiché, a guardare bene, non esistono bambini capricciosi. Anche di fronte al cosidetto “capriccio”m ovvero quando il bambino si lamenta e mette in atto un “pianto strumentale”, rimane importante pensarlo come una comunicazione: cosa vuole dire con questo comportamento? Perché sta comunicando con questa modalità?
Mettersi “nei panni del bambino” può essere uno strumento molto potente per fornire una lettura diversa e più funzionale. D’altra parte metodi educativi che suggeriscono di non rispondere in modo contingente al pianto con l’obiettivo di portare a una sua estinzione graduale, possono avere effetti profondamente negativi. Il bambino sperimenterà la frustrazione di non avere alcun effetto sulle persone accanto a lui e potrà adattarsi a non richiedere aiuto quando ne avrà bisogno, oppure imparare a piangere ancora più forte per ottenerlo, agendo sullo “sfinimento” dell’adulto. E’ bene quindi non ignorare il pianto, ma al contrario è utile accorglielo poiché, come è stato documentato, la durata del pianto si riduce quando gli interventi dell’adulto sono caratterizzati da maggiori comportamenti di cura (Alvarez, 2004). I più grandi hanno poi bisogno di essere aiutati a dare senso a ciò che sperimentano. Anche se a volte non potranno comprendere interamente il significato, può servire ricorrere a semplici verbalizzazioni relative a loro stato d’animo. Ad esempio, dopo che un bambino è stato picchiato da un compagno ci si può rivolgere empaticamete con una frase del tipo: “Piangi perché sei arrabbiato?”. Questo rispecchiamento permette al bambino di “connettere” l’espressione emozionale (il pianto), l’evento scatenante (l’aggressione del compagno) e il suo mondo interno (il vissuto di rabbia). In questo modo il pianto non rimane solo la manifestazione di uno stato fisico che richiede un’azione liberatoria di tipo catartico, ma diventa un’esperienza che può essere lentamente rappresentata e condivisa.
Ma se il pianto segue una linea evolutiva, perché a parità di età e di stimolazioni e/o bisogni alcuni bambini piangono più di altri? E perché alcune modalità di risposta sembrano essere efficaci solo per alcuni? E’ chiaro che ogni bambino risponde e si adatta all’ambiente in modo personale, in base a fattori di tipo genetico, temperamentale e familiare. Le reazioni emotive, comprese il pianto e la loro modulazione, sono fortemente legate alle differenze individuali. A parità di condizioni alcuni bambini piangono molto, altri per nulla. Allo stesso tempo alcuni possono recuperare velocemente, altri con molto lentezza. Alcuni bambini possono essere più sensibili di altri, ovvero avere soglie sensoriali più basse, che li portano a registrare le informazioni troppo intensamente e vengono attivati anche da stimoli di bassa intensità. Questi bambini possono quindi essere portati a “proteggersi” dalla moltitudine di stimolazioni ricevute, apparendo così irritabili e facilmente inclini al pianto. Al contrario, altri, possono essere meno sensibili, ovvero avere una soglia sensoriale più alta: sono bambini che tendono a registrare le informazioni con un’intensità minore e che hanno bisogno di molte stimolazioni per attivarsi adeguatamente. Di conseguenza questi bambini potrebbero piangere meno e apparire passivi e difficili da coinvolgere.
Anche la modalità di regolazione varia da bambino a bambino: esistono modalità passive, caratterizzate da scarsi tentativi per diminuire o aumentare la quantità di stimolazione, e modalità attive, basate sulla ricerca attiva di più o meno stimoli. Si può quindi capire come le cause che scatenano il pianto siano del tutto individuali e solo in parte generalizzabili (Dunn, 1997).
Il riconoscimento da parte dell’adulto delle modalità di elaborazione degli stimoli e della modalità di regolazione con cui i bambini modulano il rapporto con l’ambiente fisico e relazionale è un elemento aggiuntivo di conoscenza, che in parte può guidare la scelta dell’intervento educativo più adatto. Ad esempio, un bambino con alta soglia e regolazione passiva necessiterà di maggiori intensità nelle stimolazioni offerte per potersi calmare, mentre un bambino con alta soglia ma con modalità di regolazione attiva, necessiterà di maggiori opportunità di trovare gli stimoli in grado di calmarlo. Al contrario, bambini con bassa soglia e modalità passiva beneficeranno di pattern di esperienze sensoriali maggiormente strutturate (ad esempio, offrire routine), quelli con modalità attiva necessiteranno invece di una riduzione degli input sensoriali.
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Il pianto è una formidabile finestra sul mondo interno del bambino, ci parla di lui, delle sue emozioni, di come vive le cose e sperimenta il mondo. E’ anche una grande opportunità per l’adulto perchè ci permette di entrare in un contatto autentico e intimo con il bambino. In effetti, il pianto di un bambino ha una forte valenza relazionale, poiché mette l’adulto nella condizione di dover attivare la sua capacità contenitiva e trasformativa, ovvero la possibilità di aiutare il bambino ad elaborare e tradurre il suo disagio in un’esperienza tollerabile, e magari maturativa.
Infine, le lacrime di un bambino sono un’occasione di apprendimento emozionale a livello personale che non dovrebbe essere sottovalutata. Quante volte essere di fronte a un bambino che piange ha risvegliato la nostra esperienza del pianto, rimandando a quello che ci fa (o ci ha fatto) piangere, a quello che ci emoziona (o ci ha emozionato) e ci aiuta (o ci ha aiutato) a superare il nostro pianto. Questo è tanto più significativo se si pensa che da adulti non si piange molto, oppure lo si fa di nascosto, quasi vergognandosi. Non è raro che gli adulti che piangono dicano al proprio interlocuore: “scusami se piango”. Molte volte, piangere apertamente viene considerato come un segno di fragilità emozionale e lo si accosta appunto all’essere piccoli. E’ comune sentir dire frasi rivolte verso un adulto del tipo: “piangi come un bambino”, e verso i bambini, richiami del tipo: “i bambini grandi non piangono”. Eppure, i bambini non piangono per fragilità, ma per esprimere se stessi senza remore. Così in qualche misura un bambino che piange non solo ci interroga, ma offre anche una piccola lezione di autenticità di cui qualche volta gli adulti dovrebbero fare tesoro.
Riferimenti bibliografici
Alvarez, M. (2004). Caregiving and early infant crying in a danish community. Journal of Developmental and Behavioral Pediatrics, 25, 91-8.
Barr, R. G. (1991). Crying in kung San Infants: A test of cultural specificity hypothesis. Developmental Medicine and Child Neurology, 33, 601-610.
Barr, R. G. (1998). Crying in the first year of life: good news in the midst of distress. Child: care, health and development, 24, 425-39.
Dunn, W. (1997). The impact of sensory processing abilities on the daily lives of young children and families: A conceptual model. Infants and Young Children, 9, 23–25.
Rothganger, H. (2003). Analysis of the sounds of the child in the first year of age and a comparison to the language. Early Human Development, 75, 55-69.
Wolff, P. (1969). The natural history of crying and other vocalization in early infancy. In B. Foss (a cura di), Determinants of Infant Behavior, Vol.4. London. Mathuen.